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Il Morlacco: tradizione o innovazione?
Il Morlacco: tradizione o innovazione?
In questo periodo primaverile tornano alla ribalta nei nostri piatti gli asparagi, i “bruscandoli”, le “erbette rosoline”, le “tagliatelle della Madonna” e tutte le altre erbe spontanee; con loro, spesso troviamo anche uno dei formaggi tipici del nostro territorio, il Morlacco, che diventa protagonista nei risotti, nei pasticci e nelle frittate.
Ma, quale tipo di Morlacco possiamo oggi reperire? Quello che ci tramanda la storia e la tradizione oppure quello più innovativo?
Non possiamo certamente pensare a questo formaggio senza associarlo alla sua zona storica di produzione: il Monte Grappa e la fascia Pedemontana del Grappa. Fu, infatti, in quest’area che, all’incirca nel XIII° secolo, si insediarono alcuni pastori nomadi partiti dalla zona del Mar Caspio, veicolando così anche la cultura casearia dell’epoca.
A loro vengono quindi attribuite le origini storiche di questo rinomato formaggio, nome compreso; prima di arrivare da noi, questi pastori rimasero a lungo in Morlacchia, un’area montuosa situata tra l’Istria e la Dalmazia, da cui è poi derivato il termine Morlacco (o Morlàc). Alcune persone più anziane chiamano ancora questo formaggio con il nome di Burlaco, termine che è quasi certamente il trait d’union tra il popolo dei Morlacchi e la vacca di razza Burlina, ossia l’animale da latte un tempo dominante nella nostra area. Proprio la vacca Burlina, dopo avere seriamente rischiato l’estinzione, scendendo addirittura sotto i 200 capi nel 2001, è oggi l’elemento trainante per il rilancio del formaggio Morlacco: la grande rusticità di questa vacca, la predisposizione naturale al pascolo montano, la buona facilità di parto e la lunga vita produttiva, unitamente all’elevata qualità del latte che fornisce, compensano di gran lunga la minore produzione lattifera.
Ci chiedevamo, però, all’inizio a quale punto sia collocato oggi il Morlacco, ossia, è più vicino alla tradizione, all’innovazione o sta nel mezzo?
Credo che per riuscire a ricavarsi una fetta di mercato che non può certamente definirsi importante sotto il profilo della quantità (data la limitata produzione), ma che piuttosto dovrà cercare di posizionarsi in quello cosiddetto “di nicchia”, occorra senza dubbio che il Morlacco possa nettamente distinguersi dalla crescente schiera di prodotti prima quasi estinti e oggi salvati solamente per quanto riguarda il nome. Mi spiego meglio! Dobbiamo, prima di tutto, decidere quale prodotto è giusto che si possa chiamare Morlacco: quello quasi cremoso, molto odoroso, con note decisamente saline e retrogusto erbaceo ed amarognolo, che potevo andare ad acquistare nelle malghe del Monte Grappa assieme a mio padre negli anni ’60-’70 e che “stimolava” sciami di mosconi a seguire la nostra Fiat 600 verde acqua quando si tornava verso casa, o quello bianco, asciutto e quasi insapore che spesso ci capita di assaggiare oggi?
Questa enorme difformità estetica e gustativa non può certamente contribuire alla diffusione positiva del Morlacco, in quanto il consumatore non può fidelizzarsi ad un prodotto costantemente ed enormemente variabile. Occorre, senza dubbio, un maggiore dialogo tra le persone che ne costituiscono l’intera filiera produttiva, chiaramente tra i casari in primis, ma decisamente anche tra i selezionatori, gli stagionatori e i commercianti poi. E non mi sto certamente riferendo a differenze legate alla stagione nella quale il formaggio è prodotto, ovvero agli aspetti legati alla produzione estiva di alpeggio e a quella invernale di pianura, bensì a problematiche reali che riguardano metodologie di produzione troppo difformi. Infatti, mentre per quanto riguarda altri formaggi, come ad esempio il nostro Asiago D.O.P., esiste un disciplinare di produzione codificato che obbliga chi vuole produrre quel determinato tipo di formaggio a seguirne l’esecuzione (anche se comunque emergono poi differenze qualitative sostanziali, ma certamente mai così evidenti da rendere irriconoscibile il formaggio che si era deciso di produrre), nel caso del Morlacco, tutto è lasciato al libero arbitrio del produttore. Niente di male, ognuno darà sicuramente il meglio di sé, ma allora temo che ci stiamo avviando sempre di più verso l’innovazione, perdendoci preziosi pezzetti di storia rurale e gustativa racchiusi nella tradizione.